giovedì 31 luglio 2008

Paul Klee e la musica

Riportiamo uno stralcio di "Fare pittorico ed essere musicale nell'opera di Klee" di Daniela Gamba.
Liberamente tratto da Users.unimi.it (dove continua...)

Anche ad un primo approccio all'arte grafica e pittorica di Klee è quasi impossibile non accorgersi di una sua forte vicinanza con il mondo della musica, data la presenza nel catalogo delle sue opere di più di 500 titoli aventi come tema le maschere, la musica e il teatro. Risulta più difficile chiarire in che cosa precisamente consista questa musicalità, senza lasciarsi conquistare dal fascino di tale parallelo e abbandonarsi a fantasiose interpretazioni del suo significato.

Al rischio di superficialità si aggiunge all'opposto quello di un eccessivo rigore nella ricerca di una puntuale corrispondenza, quasi a livello di traduzione, tra il piano compositivo musicale e quello della costruzione pittorica, rigore che porta inevitabilmente ad una forzatura del materiale analizzato. Klee stesso, soprattutto negli anni giovanili, è estremamente circospetto nel delineare un'analogia fra le arti, condividendo così il pensiero di Goethe che, nella sua Teoria dei colori, raccomanda di evitare un paragone troppo affrettato tra i due ambiti del colore e del suono: «Colore e suono non si possono in alcun modo paragonare. Entrambi possono però essere riferiti a una formula superiore e da questa essere derivati, sebbene separatamente. Colore e suono sono come due fiumi che nascono da un'unica montagna, ma che scorrono in condizioni del tutto diverse, in due regioni che nulla hanno di simile, cosicché nessun tratto dei due corsi può essere confrontato con l'altro»[1].

Bianco polifonicamente incorniciato (1930)

L'atteggiamento di Klee nei confronti della musica appare lontano anche da quello caratterizzante molte riflessioni teoriche sulle arti visive nel '900, che vedevano nell'essenza della musica la condizione di immaterialità e astrazione cui aspirare, attribuendole in questo modo uno statuto di superiorità difficilmente raggiungibile dall'arte pittorica.

Per comprendere il significato dei riferimenti musicali all'interno dell'opera kleeiana è necessario distinguere i vari livelli in cui essi si presentano e tener conto dell'articolato contesto della poetica dell'artista e della sua riflessione teorica sulla natura e sull'azione dei mezzi pittorici. La stretta somiglianza di opere apparentemente lontane da un qualsiasi rapporto con l'ambito della musica con opere che invece palesano nel titolo o nel contenuto evidenti analogie musicali (si confrontino ad esempio Bianco polifonicamente incorniciato (1930) e Casa, dentro e fuori dello stesso anno, oppure Toccate d'arco eroiche e L'uomo grigio e la costa, entrambe del 1938) deve far nascere il sospetto che la ricerca dei rapporti tra musica e pittura nell'arte di Paul Klee non debba essere condotta esclusivamente sul piano più superficiale dei titoli e dei contenuti, ma attraverso l'analisi della struttura compositiva dell'opera.

Casa, dentro e fuori (1930)

Possiamo rintracciare almeno quattro livelli interpretativi per i riferimenti musicali nell'opera di Klee: 1. la musica come passione; 2. il grafema musicale come elemento segnico; 3. la temporalità della Gestaltung; 4. la "polifonia pittorica".

Qui la bibliografia completa sull'argomento:

  • K. P. AICHELE, "Paul Klee's operatic themes and variations" in Art bulletin, USA, Vol. LXVIII/3 (September 1986) pag.450-66
  • K. P. AICHELE, "Paul Klee's Rhythmisches: A recapitulation of the Bauhaus years", in Zeitschrift für Kunstgeschichte, Germania, Vol. LVII/1 (1994), pag.75-89
  • K. P. AICHELE, "Paul Klee's Vocal fabric of the singer Rosa Silber" in Iris, notes on the history of art, Vol. I (February 1980) 25-27
  • P. BOULEZ, Il paese fertile - Paul Klee e la musica, Milano, Leonardo Editore, 1989
  • M. DONA', "Forma pittorica e forma musicale in Paul Klee", in Testimonianze, studi e ricerche in onore di M. Gatti (1892-1973), Bologna, 1973
  • Ch. GEELHAAR, Paul Klee (in "Vom Klang der Bilder: Die Musik in der Kunst des 20. Jahrhunderts), München: Prestel, 1985, pag.422-29
  • W. HEISE, Über Zwitschermaschinen und andere Kompatible ("Zum Sehen geboren...": Gedenkschrift für Helmuth Hopf), Münster: Lit, 1992, pag.163-172
  • L. HOFFMANN-ERBRECHT , "Paul Klees Fuge in Rot (1921): Versuch einer neuen Deutung", in Augsburger Jahrbuch für Musikwissenschaft, Vol. IV (1987) pag.321-36.
  • A. KAGAN, Paul Klee - Art and Music, Ithaca, Cornell U.P., 1983
  • A. KAGAN - W. KENNON, "The fermata in the art of Paul Klee" in Arts magazine, USA, Vol. LVI/1 (September 1981) 166-70
  • W. REICH, "Paul Klee und die Musik", Schweizerische Musikzeitung, Zurich, 1955, n° 9, pag. 347-348
  • W. SALMEN, "Die Zwitschermaschine: Zu gleichnamigen Werken von Paul Klee und Giselher Klebe" in Neue Zeitschrift für Musik,Vol. CXLVII/6 (1986) pag.14-18
  • TAN DUN, Death and fire: Dialogue with Paul Klee: An analysis, DMA doc.: Columbia U., 1993
  • R. VERDI, "Musical Influences upon the Art of Paul Klee", Museum Studies, Chicago, Art Institute of Chicago, 1968, n° 3, pag. 81-107 (in tedesco in Melos, Germany, vol. XL/1 (1973), pag. 5
  • F. WILL-LEVAILLANT , "Paul Klee et la musique. I: Psychobiographie et représentations" in Revue de l'art, France, Vol. 66 (1984) pag.75-88
  • Catalogo "Klee et la musique: Centre Georges Pompidou, Musée national d'art moderne, 10 octobre 1985-1er janvier 1986" (contributi di M. Franciscono; J. Glaesemer; K.Grebe; O. E. MoeW. Salmen), Paris, Centre Pompidou, 1985 (Bibliografia: p. 195-198) - In tedesco: "Paul Klee und die Musik: Schirn-Kusthalle Frankfurt, 14. Juni bis 17. August 1986" [Organisation: Ch. Vitali, Mitarbeit: B. Zeller, I.Begall, N. Nessler], Berlin, Nicolaische Verlagsbuchhandlung, 1986 (Bibliografia: p. 253-256) - In danese: "Klee og musikken" (mostra del 1985 al Sonja Henie og Niels Onstads Stiftelser Kunstsenter, Hovikodden, Norway; a cura di Ole Henrik MOE), Ho-vikodden: Henie-Onstad Kunstsenter, 1985
Altri testi di riferimento:
  • AA.VV., "Jakob Stainer und seine Zeit", in Innsbrucker Beiträge zur Musikwissenschaft, Austria,Vol. 10, Innsbruck: Helbling, 1984 (rapporto sul congresso del 1983 su Jacob Stainer a Innsbruck, edito da W. Salmen; contiene un saggio di A. GREYTHER sul cosiddetto "violino tirolese" di Paul Klee)
  • L. ARAGONA, "Il lied di Abelone e il sopraciglio di Senecio: I lieder di Webern tra figura e struttura" in Rivista italiana di musicologia, Italia, Vol. XXIII (1988), pag.279-310
  • F. T. BACH, Johann Sebastian Bach in der klassischen Moderne (in "Vom Klang der Bilder: Die Musik in der Kunst des 20. Jahrhunderts"), München: Prestel, 1985, pag.328-35
  • M. BACIC, "Klangraum - Raumklang" in International review of the aesthetics and sociology of music, Croatia, Vol. XI/2 (December 1980) pag.197-217
  • K-E. BEHNE, "Singen und Würfeln: Zur Psychologie kreativer musikalischer Prozesse" (Singing and dicing: The psychology of creative musical processes), in Vom Einfall zum Kunstwerk: Der Kompositionsprozess in der Musik des 20. Jahrhunderts, Laaber: Laaber Verlag, 1993, pag. 309-330
  • A. CLARKSON, "Lecture on Dada by Stefan Wolpe", in Musical quarterly, USA Vol. LXII/2 (1986), pag.202-15
  • G. DAMIANI, "La necessità della variazione nel pensiero viennese progressista", in Studi musicali, Italia, Vol. XXII/2 (1993), pag.447-465.
  • F. GEYSEN, "Plastische Kunsten en Muziek van deze eeuw: Parallellie in de inspiratie, werkwijze, resultaat? (Arti plastiche e musica in questo secolo: un parallelismo nella loro ispirazione, metodo e risultati?)" in Adem, Belgium, Vol. XX/1 (January-February 1984) pag.15-20 (in olandese, riassunti in francese e inglese)
  • W. GOLDHAN, Musik-Ornamente von Ferdinand Eckhardt sen., Beethoven, Brahms, Bruckner, Rachmaninov, Wagner, Berlin, Edition q, 1993
  • A. d'HARNONCOURT, Paying attention, (Rolywholyover a Circus), Los Angeles: Museum of Contemporary Art, New York, Rizzoli, 1993
  • A. von IMHOFF, "Zimmermanns aussermusikalische Quellen", in Musik und Bildung, Germany, Vol. X/10 (1978) pag.636-40
  • U. JUNG-KAISER, Stilparallelen zwischen der Musik Mozarts und der bildenden Kunst des 20. Jahrhunderts: Zur Problematik der Stilkritik im fächerübergreifenden Kontext, (Internationaler Musikwissenschaftlicher Kongress zum Mozartjahr 1991, Baden-Wien), Tutzing: Schneider, 1993, pag. 163-91
  • L. LESLE, "Bildermusik - Musikbilder: Beziehungsgeschichten zwischen Tonkunst und Malerei", in Neue Zeitschrift für Musik, Vol. CXLIX/4 (April 1988), pag.8-11.
  • Ch. LICHTENSTERN, Der Instrumentenmensch in der Kunst des 18. und 20. Jahrhundert (Die Mechanik in den Künsten: Studien zur ästhetischen Bedeutung von Naturwissenschaft und Technologie), Marburg: Jonas, 1990, pag.231-243
  • N. PERLOFF, "Klee and Webern: speculations on modernist theories of composition", in Musical quarterly , USA, Vol. LXIX/2 (spring 1983) pag.180-208
  • W. SALMEN, "Reflexionen über Bach in der bildenden Kunst des 20. Jahrhunderts", in Bach-Jahrbuch, Vol. LXXII (1986), pag.91-104 (abstract in inglese, francese, russo)
  • G. SCHUHMACHER, Johann Sebastian Bach und eine "Harmonielehre der Malerei": Musikalisch-kunstästhetische Reflexion und Gestaltung bei Braque, Klee und Kandinsky (Musica privata.Die Rolle der Musik im privaten Leben: Festschrift zum 65. Geburtstag von Walter Salmen), Innsbruck, Helbling, 1991, pag.357-378
  • P. STACEY, Boulez and the modern concept, Lincoln, U. Nebraska, 1987
  • S. N. SUMMERS, The Orpheus legend in literature, music, and the visual arts: Four twentieth century works, PhD diss.: Texas Tech U., 1993
  • K-H. WEIDNER, Bild und Musik: Vier Untersuchungen über semantische Beziehungen zwischen darstellender Kunst und Musik, Frankfurt am Main: Lang, 1994
  • H. Ch. WORBS, "Von Komponisten, die malen, und Malern, die komponieren", in Musik und Medizin, Germany, Vol. II/5 (1976) pag.46-52
  • P. KLEE -TAN DUN, Death and fire: Dialogue with Paul Klee, 1992/ Tan Dun.; Dialogue with Paul Klee, New York, NY (134 Henry St., New York, 10002), Crossings, 1992; 1 Duration: ca. 26:30 - The National Gallery performing musical interpretations of the paintings of Paul Klee [sound recording] Performed by the National Gallery, Philips, 1976 (1 sound disc)

martedì 29 luglio 2008

Rossini Renaissance

Sotto il nome di Rossini-renaissance s'intende, fra studiosi e amatori, il ritorno nella pratica teatrale delle opere dimenticate di Gioachino Rossini; fenomeno, questo, che, lungi dall'essere isolato, deve essere considerato come un episodio di un altro fenomeno, assai più vasto. Nel corso dell'ultimo trentennio il consumo musicale italiano e straniero è stato soggetto a profonde modifiche; i titoli di punta del tradizionale repertorio operistico hanno subìto una progressiva erosione, mentre opere ineseguite da decenni e talvolta da secoli sono state riproposte al pubblico moderno con frequenza sempre maggiore; spesso questi repéchages hanno avuto una fortuna puramente episodica, essendo originati da una curiosità mal riposta. Invece, all'interno della lenta metamorfosi del repertorio (se questo può ancora essere così chiamato), la rinascita rossiniana appare come il fenomeno probabilmente più sbalorditivo e importante che si sia verificato nel consumo musicale italiano, e di riflesso mondiale, negli ultimi venti, forse quindici anni.
Anche prima della renaissance Rossini era incontestabilmente un compositore già amatissimo ed eseguitissimo in tutto il mondo; esso tuttavia è stato letteralmente "riscoperto". La sua immagine di uomo e di artista appare oggi profondamente modificata, decine di sue partiture, misconosciute e talvolta vilipese, sono state riconosciute come opere di preziosissima fattura, se non come autentici capolavori. Sorprendenti appaiono la rapidità con la quale si è trasformata la valutazione della musica di Rossini, la profondità di tale trasformazione, la sua ricezione non solo da parte di un ristretto numero di studiosi, ma anche di larghissimi strati di amatori. La musica di Rossini, insomma, attraversa oggi un momento di fortuna che appena quindici anni fa sarebbe sembrato impensabile. Non sarà inutile, prima di addentrarci nei meandri delle numerose questioni critiche sollevate dal presente stato di cose, considerare le cause della secolare mistificazione dell'immagine del compositore, e ripercorrere brevemente le principali tappe che hanno ora portato a una sua più corretta valutazione.


Si è detto che anche prima della renaissance Rossini era amatissimo ed eseguitissimo. Alla morte del compositore, a Passy presso Parigi nel 1868, le manifestazioni di cordoglio si svilupparono, intensissime, in tutto il nuovo stato unitario. Rossini era considerato la personalità che, con Manzoni, più di ogni altra aveva contribuito alla unificazione culturale della nazione nascente. E in effetti - come ha giustamente rilevato Roman Vlad nel suo Dossier dello scorso dicembre - la sua apparizione aveva rappresentato una brusca rottura con il passato, una folgorante vittoria sulla frammentarietà delle varie scuole "regionali", e l'affermazione di una nuova maniera, rapidamente diffusa in tutta la penisola. All'ombra della produzione del Pesarese erano cresciuti, poco più giovani di lui e provenienti da diverse aree geografiche, tutti i più grandi operisti, Pacini, Donizetti, Mercadante, Bellini, e poi lo stesso Verdi. Le opere di Rossini, sebbene concepite in un'ottica di consumo immediato, non erano scomparse a breve distanza dalla loro nascita, ma erano rimaste in vita e tenute in alta considerazione, costituendo il primo nucleo di un "repertorio" che si sarebbe via via arricchito con le principali partiture dei suoi successori. Tuttavia nel 1868 delle trentanove opere scritte da Rossini in diciannove anni di carriera, nemmeno una decina sopravviveva stabilmente in repertorio, e negli anni a venire questo numero si sarebbe ancora drasticamente ridotto. La celebrità del compositore, insomma, era riferita assai più alla sua figura e al suo ruolo che non alla sua musica.

Nei quarant'anni trascorsi fra l'ultimo capolavoro, Guillaume Tell (1829), e la morte dell'autore, una profonda trasformazione era intervenuta nel gusto di pubblico e esecutori, e una nuova concezione del dramma si era lentamente affermata nella coscienza collettiva. La straordinaria riforma operata da Rossini sull'opera italiana aveva preso comunque le mosse dalle estreme propaggini dei melodrammi metastasiani, da una concezione dell'arte edificatoria, antirealistica e tendente al sublime; gli stessi mezzi espressivi della musica rossiniana - la astratta vocalità belcantistica, la voce del contralto en travesti per il personaggio del protagonista maschile, il "crescendo" con funzione spersonalizzante, l'impiego di forme vaste e regolari - potevano difficilmente essere accettati dalla generazione dei giovani romantici. I successori del Pesarese mirarono invece al diretto coinvolgimento emotivo del pubblico, narrando vicende di esacerbati contrasti; imposero un'espressività più partecipe e non idealizzata, una vocalità più sobria e sillabica, vollero protagonista la voce realistica del tenore.

Parallelamente al mutare degli indirizzi della produzione musicale, mutò la prassi esecutiva; intorno alla metà del secolo i cantanti in grado di affrontare l'impervia scrittura belcantistica rossiniana erano drasticamente diminuiti, e questo implicò la scomparsa dal repertorio della quasi totalità delle opere del compositore, d'altronde ormai non più corrispondenti alle mutate esigenze del pubblico. Rimasero tuttavia in auge quelle partiture che racchiudevano forti istanze preromantiche, come Otello, La donna del lago, e i capolavori francesi, Moise et Pharaon e Guillaume Tell; oltre al teatro buffo, Barbiere di Siviglia in testa, in esecuzioni farsesche. Va osservato che Barbiere e Tell continuarono ad essere eseguite ininterrottamente e con immutato successo presso il pubblico fino alla metà del nostro secolo, tenendo vivo e alto il nome di Rossini fra i posteri; le esecuzioni si basavano su edizioni fortemente corrotte rispetto agli autografi, e la tradizione esecutiva permetteva i più incredibili arbitri, dalla sostituzione di brani con altri più semplici o più graditi ai cantanti allo spostamento del ruolo vocale di determinati personaggi, dall'inserimento di gags di dubbio gusto agli sconci tagli che stravolgevano l'architettura mirabile delle partiture (vilipendio, d'altronde, tutt'altro che scomparso ai nostri giorni).

In sede critica Rossini fu valutato conformemente a ciò che sopravviveva nella prassi esecutiva; per la generazione di critici volta verso la "musica dell'avvenire" e il dramma wagneriano, la concezione rossiniana del dramma era del tutto inaccettabile, la scrittura vocale belcantistica del tutto antidrammatica; dunque tutta la produzione drammatica del Pesarese fu complessivamente incompresa e disprezzata, ad eccezione del grande affresco del Guillaume Tell e di quelle poche pagine della produzione precedente che lasciavano presagire questo capolavoro "romantico".
Quanto alla produzione buffa, fu sottratta alle problematiche che ne avevano segnato la nascita, e riduttivamente assunta come vertice di comicità pura; emblematico, in questo senso, il giudizio del critico Filippo Filippi, che nel 1864 definiva la musica di Rossini "gaia, ridente, spensierata" in opposizione a quella di Meyerbeer, "nella quale si ode scorrere le lacrime e tumultuare le passioni". Parallelamente alla produzione, anche la personalità di Rossini fu fraintesa e sconvolta; l'uomo nevrotico e tormentato, l'intellettuale che aveva dato la propria impronta indelebile a due contrapposte civiltà musicali, fu visto come un burlone indolente dedito alla buona tavola e alle battute di spirito.
Nel nostro secolo l'avvento di una nuova coscienza storiografica portò almeno a encomiabili ricerche documentarie sulla vita del compositore; ne uscì la biografia di Giuseppe Radiciotti, edita nel 1927-29, tuttora fondamentale per completezza e attendibilità di ricostruzione, ma del tutto inattendibile in quanto a giudizi critici. Eppure la maggior parte delle valutazioni sulla musica di Rossini furono date proprio richiamandosi alle opinioni di Radiciotti, con esiti di sconcertante approssimazione. D'altra parte l'affermazione della "giovane scuola" verista aveva imposto una concezione del teatro musicale basata sull'espressione enfatica e retorica, semplicemente agli antipodi dalle meditate costruzioni delle partiture rossiniane. Il punto più basso della fortuna di Rossini si ebbe nei tentativi di adeguare la sua musica al gusto verista, tentativi compiuti secondo pregiudizi grotteschi; si cercava di "migliorare" il dettato dell'autore deformando la veste musicale ed eliminando quanto appariva "superato". Il più radicale ed arbitrario degli adattamenti è forse la rielaborazione della Gazza Ladra compiuta nel 1941 da Riccardo Zandonai, ma simili esperimenti si sono avuti ancora nel dopoguerra.
Ciò nonostante la rinascita rossiniana del nostro secolo è partita non dagli studi critici, ma dalle esecuzioni musicali, anzi dall'opera illuminata di alcuni singoli interpreti. Già negli anni fra le due guerre venivano riprese opere buffe considerate minori, come Cenerentola e L'Italiana in Algeri; e nell'impegno di riproporre con convinzione il teatro buffo rossiniano si distinse con lungimiranza e perseveranza il direttore Vittorio Gui. Ma per una completa e attendibile riproposta del teatro serio non esistevano ancora né la disponibilità del pubblico né le condizioni esecutive; "Rossini lì non c'è, lo troverai nel Barbiere" scriveva il critico Bruno Barilli in una corrispondenza privata, a proposito della ripresa di Semiramide, messa in scena nel 1940 dal Maggio Musicale Fiorentino, dopo quarantanove anni di assenza dalle scene italiane.

Il massimo ostacolo alla comprensione del teatro serio rossiniano veniva dalla totale inadeguatezza degli interpreti della scuola vocale verista nel ricreare l'esatto significato espressivo della scrittura vocale belcantistica. Con felici parole Nino Pirrotta ha illustrato il "concetto negativo del canto di coloratura derivato dalla volatilità acrobatica dei soprani leggeri, [...] i soli a praticarla sistematicamente, e dalle intonazioni approssimative, o (peggio) dalle deformanti accelerazioni di tempo alle quali sono costretti a ricorrere, con poche eccezioni, i cantanti di altro tipo. Ci manca quasi completamente l'esperienza dell'agilità agevole in pienezza di suono e uguaglianza di timbro, per la quale fu celebre, tra tante altre, la voce di Isabella Colbran [interprete prediletta e prima moglie di Rossini]. E dalla mancanza delle condizioni dalle quali dovrebbero emergere spontanei e senza sforzature i valori melodici e la loro implicita espressività nascono [...] le riserve che accompagnano i giudizi critici sulla Semiramide...".

Agli inizi della Rossini-renaissance si colloca insomma l'affermazione della cantante che per prima tentò l'impianto del canto di coloratura su una voce di soprano drammatico e non leggero; si comprende come Fedele D'Amico, riferendosi a Maria Callas, parlasse non solo di "nutrimento musicale" ma anche di "stimoli culturali". Il ritorno in auge della vocalità belcantistica, negli ultimi trent'anni, sulla strada aperta dalla Callas, è un fenomeno sotto gli occhi di tutti, che non ha bisogno di essere descritto. Esso è condizione imprescindibile della rinascita rossiniana, ma da solo non basta a spiegarla. Le riproposte, fra il 1952 e il 1964, di Armida, Donna del lago, Semiramide, Otello, permisero di intuire che anche il teatro drammatico rossiniano poteva avere una sua validità ai nostri giorni, ma non valsero a modificare, nella sostanza, la diffidenza di critici ed esecutori. Ancora nel 1973, a proposito della ripresa romana in edizione critica della Gazza Ladra, un recensore di grido si domandava se veramente fosse il caso di resuscitare partiture che il tempo aveva giudicato caduche.

Ben diversi erano gli intendimenti di quegli studiosi che da pochi anni avevano assunto compiti dirigenziali all'interno della Fondazione Rossini di Pesaro, Bruno Cagli, Philip Gossett, Alberto Zedda; l'impulso dato dalla Fondazione Rossini (l'istituzione deputata all'amministrazione del patrimonio del compositore) alla comprensione e diffusione della musica di Rossini non è facilmente calcolabile. Per consentire che l'intuizione dei valori del teatro rossiniano si trasformasse in una autentica rinascita era indispensabile infatti una massiccia e meticolosa azione a livello musicologico, che prevedesse una paziente e difficoltosa opera di ricerca delle fonti, di analisi delle partiture, di pubblicazione in edizione critica degli inediti. Già negli anni '60, sotto la guida di Alberto Pironti, la Fondazione Rossini aveva promosso l'edizione (non critica) degli inediti della vecchiaia del compositore (i cosiddetti Péches de vieillesse). Alla fine dello stesso decennio Alberto Zedda dava l'avvio all'edizione critica delle partiture più celebri ed eseguite, Barbiere e Cenerentola, eliminando le incrostazioni che il tempo vi aveva apportato; nel frattempo Philip Gossett metteva a punto il primo catalogo completo delle fonti rossiniane, redatto secondo ricerche minuziose quanto complesse. La svolta decisiva doveva venire dal progetto avveniristico dell'edizione critica dell'opera completa del compositore, promossa dalla Fondazione Rossini in collaborazione con l'editore Ricordi; un progetto che prendeva le mosse dalla coraggiosa premessa che una valutazione esatta della figura e della produzione del Pesarese doveva riconsiderare globalmente tutto il suo teatro, senza pregiudizi e discriminazioni.

Sulla spinta delle edizioni critiche della Fondazione Rossini il teatro serio di Rossini subì una rapida e progressiva diffusione nei teatri italiani e stranieri, incontrando i gusti del pubblico con una facilità che ha del miracoloso. A titolo esemplificativo basterà ricordare che nella prima metà degli anni '80 sei degli undici enti lirici italiani furono spinti a mettere in scena Semiramide, che in precedenza aveva contato appena due riprese italiane nel dopoguerra. Per promuovere la diffusione del teatro rossiniano in esecuzioni attendibili quanto possibile, la Fondazione diede l'avvio al Rossini Opera Festival, vero "braccio operativo" dei principi teorici informatori a livello critico della renaissance. Nel volgere di un brevissimo lasso di tempo una quindicina di partiture neglette da decenni e in qualche caso da oltre un secolo fu riportata alla luce, e posta alla conoscenza del grande pubblico tramite l'intervento dei mass media, radio, televisione, dischi. Proprio l'interesse delle grandi case discografiche, spinte non da motivi ideali ma di profitto, conferma che la nuova immagine di Rossini si è ormai definitivamente affermata a livello di massa.
E questo anche se l'approfondito lavoro di ricerca è lungi dall'aver dissimulato tutti i dubbi e le incertezze; numerose questioni rimangono ancora, alle quali non è possibile dare oggi una risposta perfettamente definita. Non poche partiture devono ancora essere riproposte al pubblico in esecuzioni attendibili. La semplice lettura al pianoforte di una partitura da parte degli studiosi non permette un parere univoco sulla sua resa teatrale, o comunque sull'esatto posto occupato nel quadro generale della produzione rossiniana; l'esperienza infatti ha insegnato che il teatro di Rossini ha assoluto bisogno di vivere sul palcoscenico per essere compreso e giudicato. Alcune delle opere ancora ineseguite sono certamente degne della massima considerazione; la maggior parte di esse appartiene al genere semiserio. Altra questione è quella relativa alla scarsità dei documenti relativi al periodo della carriera del compositore; sì che la personalità di Rossini rimane per molti tratti sfuggente.

Rimane da domandarsi per quale motivo il teatro di Rossini riscuota oggi un simile entusiasmo presso il pubblico; domanda che pertiene, peraltro, più al sociologo e allo psicologo che non allo studioso di fatti musicali. La risposta che qui si offre non ha alcuna pretesa normativa. Rossini fu disconosciuto nell'epoca in cui il pubblico ancora si riconosceva in una produzione destinata al consumo immediato, che riflettesse le aspirazioni di una società in trasformazione; una produzione, in qualche modo, interessata al "realismo". Oggi invece il pubblico non crede più in una produzione contemporanea, e si reca a teatro principalmente alla ricerca di un'evasione estetica e insieme "culturale" dalla vita quotidiana. E' verosimile che gli ideali estetici di Rossini - ideali che esamineremo più avanti, volti al conseguimento del sublime -, si trovino in immediata sintonia con quelli "antirealistici" dello spettatore moderno; circostanza che permette di profetizzare al nuovo successo del teatro rossiniano una fortuna non effimera.

Arrigo Quattrocchi

(Tratto da Musica & Dossier di luglio/agosto 1989)

giovedì 24 luglio 2008

Kant e la musica, di Piero Giordanetti

Sebbene la teoria musicale della Critica del Giudizio sia stata oggetto di giudizi disparati, vi è consenso generale almeno su di un'affermazione: «Kant non capiva assolutamente nulla di musica».

Le motivazioni sono individuate ora in idiosincrasie personali, ora nell’assoluta assenza di rilievo teoretico della sua concezione dell’arte in generale e della musica in particolare. Kant avrebbe attribuito alla musica la posizione inferiore nel sistema delle arti perché essa si limiterebbe a «giocare con le sensazioni»: la musica non è arte bella, ma solo piacevole; il suo paradigma è ben rappresentato dalla musica da tavola in uso nel Settecento. Il razionalismo estetico sfocerebbe, così, in una condanna dell’arte musicale che la sacrificherebbe al procedere meccanico dell’intelletto e alla struttura rigoristica della ragione. Le sue osservazioni sugli effetti fisici
della musica sarebbero mere curiosità sull’unico aspetto che al filosofo interessasse veramente. Kant avrebbe dunque elaborato una teoria irrilevante per la storia dell’estetica musicale, ed entro il contesto del suo sistema filosofico le affermazioni sulla musica sarebbero completamente prive di interesse. Analizzata in profondità, la teoria si rivelerebbe disseminata di contraddizioni e priva di qualsiasi coerenza interna.
In breve: Kant era in questo ambito «ignorante», non era a conoscenza delle teorie musicali contemporanee, né aveva mai assistito a concerti di grandi maestri. Quando poi ci si chiede quale fosse il motivo di tanto accanimento contro quest’arte sublime, si asserisce che esso risiede nei tratti particolari della personalità del filosofo: elementi personali, individuali e biografici sarebbero il vero motivo del suo atteggiamento teorico. Così si esprimono, per non citare che alcuni esempi, Wieninger, Schueller e Weathertson:

Nell’estetica musicale di Kant rimangono quindi difficoltà essenziali, il cui […] fondamento ultimo […] è la personalità del pensatore stesso, l’assenza in lui della facoltà di una viva intuizione musicale (Wieninger 1929, p. 74).

Kant ha aggiunto alla sua teoria estetica osservazioni psicologiche, sociologiche e moralistiche sulle arti […] Si dice spesso che queste osservazioni rispecchiano l’assenza in Kant di sensibilità estetica. E, di fatto, egli sembra trattare soggetti empirici e psicologici che noi pensiamo non siano propriamente oggetto di studio della filosofia (Schueller 1953, pp. 232-233).

L’analisi kantiana della musica è chiaramente inadeguata. Prende le mosse da un iniziale esame trascendentale e si indirizza verso una concezione della musica fondamentalmente personale e poco plausibile (Weatherston 1996 p. 63).

Questa, in poche righe, l’immagine quasi universalmente accettata.
È veramente accettabile questo ritratto?
Le ricerche che qui si presentano si prefiggono di ricostruire fonti e genesi della teoria musicale elaborata dalla Critica del Giudizio.
Il capitolo I traccia il quadro delle discussioni nel quale la teoria di Kant si è inserita, riportando alla luce le dottrine note al filosofo. Il capitolo II ricostruisce le diverse fasi dell’estetica musicale
kantiana nelle loro linee fondamentali, mettendone in rilievo l’evoluzione. Il capitolo III è dedicato all’opera pubblicata nel 1790 in prima edizione, nel 1793 e nel 1799 in seconda e terza edizione.

Il testo di Piero Giordanetti si prefigge di ricostruire fonti e genesi della teoria musicale elaborata dalla Critica del Giudizio.

Continua a leggere su lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico
(qui il testo in forma integrale).

lunedì 21 luglio 2008

Kant e la musica, di Luigi Neri

L'elemento costitutivo fondamentale della musica è, ovviamente, il suono. Esso ha la natura della sensazione. Ma probabilmente i suoni musicali sono, già in se stessi, sensazioni "belle". Kant, seguendo Eulero, ritiene che il suono musicale sorghi da vibrazioni isocrone dell’aria. Tuttavia la divisione del tempo e le proporzioni matematiche a cui essa risponde non sono direttamente percepite a causa della loro rapidità. La facoltà del Giudizio avverte, tuttavia, il principio di regolarità, l’«elemento matematico», che governa le vibrazioni del mezzo. In tal modo la percezione del suono sensazione è la risultante di una molteplicità di componenti, che singolarmente sfuggono alla percezione; la bellezza del suono sarebbe, dunque, «l'effetto di un giudizio della forma nel gioco di molte sensazioni».

Se è valida, come Kant sembra ammettere, questa ipotesi, è la percezione del suono «puro», distinto dal rumore, non è un’impressione sensibile semplice, ma è l’effetto di un giudizio che si riferisce al gioco delle molteplici sensazioni e che ne coglie la regolarità formale. Il suono musicale è, dunque, già in se stesso, «un bel gioco di sensazioni» e la musica, in virtù dei suoi elementi costitutivi, è arte «bella», e non semplicemente «piacevole». La fonte principale di Kant è, come già si è notato, Eulero. Si può altresì avvertire un'eco della teoria di Leibniz, secondo cui la percezione cosciente deriva da una molteplicità infinita di «piccole percezioni» inconsce. Ma il suono è, per Leibniz, il prodotto di un calcolo matematico inconscio, («exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi»), mentre per Kant la bellezza del suono musicale sorge sempre da una generica conformità all'intelletto non riconducibile a regole matematiche.
Assai più della loro intrinseca bellezza è importante il fatto che i suoni sono in maniera spontanea e del tutto naturale collegati agli affetti. Ogni espressione dotata di significato del linguaggio parlato ha un corrispettivo musicale che ne rappresenta il particolare colore affettivo. Il «tono» («Ton») musicale rende palese l’affetto di colui che parla e, allo stesso tempo, suscita il medesimo affetto in colui che ascolta. Inoltre, per una legge di associazione, esso comunica, oltre all’affetto, anche il restante significato dell’espressione linguistica. A questo proposito Kant propone una teoria non certo originale, in voga già dai tempi della Camerata fiorentina del Cinquecento e ripresa nelle sue linee di fondo, tra gli altri, da Rousseau; egli, inoltre, non dice nulla di preciso sulla natura del Ton musicale corrispondente all’espressione linguistica.
I suoni, a seconda del timbro, dell'altezza e degli altri elementi che costituiscono la musica, sono in grado di suscitare in chi li ascolta determinati stati d'animo con una gamma assai ricca di tonalità emotive e di contenuti di pensiero ad esse associati. In questo senso la musica è una lingua, dotata di un suo significato: «quasi una lingua universale delle sensazioni comprensibile da ogni uomo», ovvero «un linguaggio degli affetti» regolato secondo la legge dell'associazione. Si noti come in questo contesto le sensazioni siano spogliate di qualsivoglia valore cognitivo e diventino quasi esclusivamente coscienza di stati di eccitazione del corpo.

Tuttavia la musica non è per Kant esclusivamente il linguaggio degli affetti. Anzi, la capacità di dare espressione al mondo affettivo è soltanto un presupposto, che non rende conto dei suoi caratteri più specifici. In primo luogo la musica si sviluppa anche secondo un'altra dimensione, quella prevalentemente, o quasi esclusivamente, "sintattica", che riguarda, non già il significato affettivo dei suoni, bensì le regole secondo cui questi vengono composti. Il rispetto di queste regole è richiesto al compositore, anche in conformità a quanto Kant aveva sostenuto a proposito dell'arte in generale e della necessità che essa sia soggetta a una disciplina. Le regole sono materia tecnica, e per questo non competono al filosofo (tanto più quando se egli non ne ha adeguata conoscenza). Esse riguardano, spiega Kant, la melodia e l'armonia e richiedono la presenza nella composizione musicale di un «tema» che costituisce «l'affetto dominante del pezzo» e a cui si riconducono e si rendono conformi le molteplici invenzioni melodiche e armoniche.


Il duplice sviluppo, lungo l'asse diacronico della melodia e lungo l'asse sincronico dell'armonia, e la funzione dominante del tema, una volta che si consideri di nuovo la possibilità della musica di riferirsi agli affetti, espande oltre ogni misura il potere espressivo della creazione musicale. Il «tema» musicale, a questo riguardo, ha un ruolo decisivo. Esso, infatti, introduce l'elemento della coerenza: il tema «serve ad esprimere l'idea estetica di una totalità coerente di una quantità inesprimibile di pensieri»34. Questo passaggio è di importanza cruciale: si passa, infatti, dagli «affetti» ai «pensieri» e compare quella possibilità di pensare mediante l'intelletto, senza alcun limite e tendenzialmente all'infinito, che è propria dell'«idea estetica» e del “bello” artistico. L’espressione degli affetti è, dunque, soltanto un elemento funzionale ad un’espressione estetica più vasta, meno determinata e tuttavia innescata da un elemento . il «tema», pur sempre controllato dall’intenzione compositiva del musicista.


Ma la sensazione del suono condiziona in maniera determinante l'esperienza dell'ascolto musicale. Nella musica l'idea estetica, pur essendo di natura intellettuale e indipendente dal dato sensibile, viene nuovamente catturata dai suoni, cosa che non accade nella poesia. Ne sorge quasi un gioco di specchi: il suono alimenta le idee estetiche, e queste si riflettono nuovamente sul suono, animandolo di significati vasti e sfuggenti, inesprimibili per mezzo di concetti. È una sorta di circuito della fruizione musicale: essa procede dalle sensazioni alle idee e di nuovo da queste ritorna alle sensazioni.


Tutto questo spiega la potenza del linguaggio musicale, potenza che Kant di buon grado riconosce. Ma il fulcro dell'esperienza dell’ascolto musicale, ossia il centro vitale attorno a cui si raccoglie l’immensa e indeterminata estensione di significati è ancora altro. Sta forse qui il nucleo centrale dell’estetica musicale kantiana. Il centro energetico propulsore del processo legato all’ascolto della musica è il corpo vivente e sensibile. Kant ne riconosce esplicitamente la centralità.
«Nella musica questo gioco va dalle sensazioni del corpo alle idee estetiche (degli oggetti che suscitano le affezioni), e da queste, con la forza acquistata, ritorna al corpo».

Questa centralità del vissuto corporeo spiega, probabilmente, la valutazione non positiva che egli esprime a proposito della musica, soprattutto quando viene paragonata con la poesia. Il fatto che la sensazione corporea, abbia nella musica un ruolo preponderante, nonostante la presenza del pensiero - ossia delle idee estetiche - fa sì che essa produca il «diletto» («Vergnügen»). Nei casi in cui questo è esclusivamente sensibile, il diletto differisce dal sentimento di piacere riconducibile alla bellezza in quanto esso è di carattere meramente “privato” e non alimenta quell'aspirazione all'universalità che è propria della bellezza. In realtà il diletto prodotto dalla musica è causato dalle idee, come Kant non esiterà a riconoscere; ed esso, inoltre, non è una sensazione corporea grezza, ma «può elevarsi fino a diventare un affetto».
In ultima istanza, dunque, la musica piace perché rafforza la percezione del benessere corporeo, cioè del «senso della salute». Per questo essa viene accomunata da Kant al «gioco di pensieri», ossia allo scherzo e al riso. Un fugace accenno al «gioco di fortuna» era stato immediatamente lasciato cadere. Non esistono, secondo Kant – si noti bene - altre occasioni in cui si manifesti il «senso della salute».
Luigi Neri (liberamente tratto dal web)


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lunedì 14 luglio 2008

La nuova vita del Trio Anhang 3 in Re maggiore di Beethoven

"Considero una cattiva abitudine annotare ogni singola idea musicale su quaderni".
Sbalorditiva, formidabile annotazione autografa di Ludwig van Beethoven per chi, come me, collaboratore del centro di ricerche beethoveniane sul Beethoven mai ascoltato "Unheardbeethoven", dedica la propria esistenza a ridare volto alla più immediata e profonda essenza stessa dell'ispirazione: l'abbozzo.
Attivo nel web dalla fine del 1997, creato dal musicologo statunitense Mark Zimmer e dal compositore olandese Albert Willem Holsbergen, il centro si ripropone di rendere accessibile tutta l'immensa produzione del Genio di Bonn rimasta incompiuta ed inedita sino ai giorni nostri. Le composizioni rese di pubblico dominio sono circa 350 [...].
La sordità, che cominciò a tormentarlo attorno al 1800 e finì per divenire progressivamente totale alla fine della sua vita, lo costrinse ad utilizzare quaderni di conversazione a partire dal 1819. Su questi quaderni i suoi interlocutori (ma sempre più spesso lui stesso) scrissero domande e risposte di una faticosa e dolorosissima conversazione. Inoltre, il fattore combinato fra la sordità e quella che il Maestro considerava "cattiva abitudine" farà affiancare a detti quaderni un numero sterminato di taccuini musicali, che lo accompagneranno dalla gioventù sino al letto di morte. Quella che per il compositore fu ineluttabile necessità diviene per noi inestimabile tesoro e mezzo straordinario di conoscenza del suo processo creativo.
Eccellenti ed illuminati mentori ci hanno preceduto in questa stimolante avventura: da Gustav Nottebohm (1817-1882) compositore e saggista tedesco, a Willy Hess (1906-1997) musicologo svizzero cui dobbiamo la monumentale edizione dei Supplemente zur Gesamtausgabe, a Giovanni Biamonti, il cui catalogo, edito dalla ILTE di Torino nel 1968 e dedicato a tutte le opere del Nostro, comprese le opere inedite e gli abbozzi non utilizzati, è tuttora insuperato e non solo nel nostro paese. Studiosi sommi, ineguagliati, che non possedettero lo straordinario mezzo di comunicazione che la tecnologia ci ha fornito, e che dona la possibilità agli studiosi, provenienti dalle più disparate parti del pianeta e di diversa formazione culturale, di potere confrontare in modo collegiale ed in tempo reale progetti intrapresi singolarmente.

In questi fecondi anni, il centro ha portato a compimento, dato alle stampe ed infine fatto eseguire alcune importanti ricostruzioni, tutte improntate al massimo rigore filologico. Come nelle opere che ebbero ventura di esser completate, così gli abbozzi spaziano in ogni ambito del genere musicale esplorato dal compositore: dall'orchestra, come l'Ouverture Macbeth, Biamonti 454, eseguita nel settembre 2001 dalla Washington Symphony Orchestra sotto la direzione del Maestro Leonard Slatkin, o il secondo movimento del Concerto per oboe ed orchestra, eseguito in prima mondiale nel novembre 2002 a Rennes, con direzione di Stefen Sanderling, al pianoforte, come la "Fantasia per pianoforte" Biamonti 213, eseguita per la prima volta a Torino nell'aprile 2006 dal Maestro Massimo Anfossi, nonché cameristica, come il Trio per pianoforte, violino e violoncello Hess 47 o il Trio in re maggiore Anhang 3, oggetto di quest'articolo, un piccolo gioiello.

Iniziato nel 2003, il sodalizio con il trio di musicisti genovesi del "Frank Bridge Trio" è stato foriero di reciproca soddisfazione e grazie all'interessamento dell'Associazione "Felice Romani", il violoncellista Giulio Glavina, il violinista Roberto Mazzola e la pianista Mariangela Marcone hanno potuto eseguire in esclusiva molta della musica cameristica inedita pubblicata dal Centro di Ricerche. In particolar modo spicca il Trio Anhang 3, il cui manoscritto è a Londra, al British Museum (Add. Mss. 31.748). Questo piccolo trio giovanile in due movimenti, probabilmente concepito alla fine del 1798 - inizio 1799 ha una storia di attribuzione assai controversa. Accorpato al catalogo di Mozart dopo una perizia nel 1910, col numero di catalogo Köchel Anhang 52a, senza che però fossero resi noti gli estremi di quest'attribuzione. Nel 1926 l'intero gruppo di manoscritti subì un'altra perizia da parte dei musicologi Theodor Wyzewa e George de Saint-Foix i quali lo attribuirono senz'altro a Beethoven, assieme ad altri quattro pezzi: il rondò per pianoforte Anhang 6, ed i tre pezzi per pianoforte a quattro mani Anhang 8. Venne infine inserito nel catalogo Kinsky-Halm nel 1956, ma come "Anhang" ovvero "appendice" assieme ad altre 17 opere dubbie. Alla metà degli anni 70 del secolo scorso fu condotto su questo gruppo di manoscritti un studio calligrafico e fu attribuita la scrittura a Caspar Carl Van Beethoven, fratello di Ludwig. Da questo studio emerse anche che il medesimo tipo di scrittura si poteva attribuire ai minuetti per orchestra WoO 12.

In effetti Caspar Carl collaborò saltuariamente col fratello proprio negli anni 1795 - 1805 per la stesura in bella copia di opere da pubblicarsi. Allo stato attuale dellericerche, non si può stabilire se questo trio sia una copia effettuata da Carl di un trio del fratello Ludwig oppure se sia un'opera originale; in questo caso ci troveremo davanti ad un compositore capace, se non altro, di rimanere al livello del Ludwig dei tempi di Bonn.
Depone a favore di Ludwig una questione di stile, una certa affinità formale ad altre opere coeve, come ad esempio il piccolo Trio WoO 38. Si può notare una certa ampiezza del costrutto sonoro, dove al dualismo tematico del primo tempo viene aggiunta un'idea accessoria, con un tipico incedere che diventerà prassi nelle opere immediatamente future, come ad esempio nel trittico di sonate per pianoforte che compongono l'opus 2.

Il primo movimento è un Allegro, forgiato su un arpeggio di gusto mozartiano. Questo è seguito da un umoristico Rondò-Allegretto, ricco di charme, divertimento e di chiassoso buon umore, punteggiato da una moltitudine di grandi pause.
Sfortunatamente al manoscritto del trio mancano due pagine, che corrispondono a 33 misure del primo movimento (da battuta da 63 a battuta 96). Perdita ancora più grave se si pensa che, basandoci sulla lunghezza relativa dei movimenti, ci si aspetta che sia andata perduta assieme a queste due pagine la ripetizione della prima sezione.

Nell'edizione incisa dall'etichetta discografica "Inedita" il trio è stato corredato delle trentatrè battute mancanti da Albert Willem Holbergen, compositore olandese che ha dedicato la sua stessa carriera alle ricostruzioni beethoveniane. La prima esecuzione pubblica del trio è avvenuta a Moneglia il 10 agosto 2005, eseguita dallo stesso "Frank Bridge Trio", e la presente incisione è il frutto di questa fruttuosa collaborazione. Le prospettive future non mancano; altre opere aspettano di essere analizzate con cura: la riscoperta non si fa senza la capacità di comprendere che la grandezza di un compositore si può capire solamente assimilando e rispettando deferenti la sua peculiare sensibilità, i suoi modi espressiviche concorrono a renderlo unico nella storia della Cultura e dell'Arte.

sabato 12 luglio 2008

La critica musicale oggi

"Mamma io vorrei imparare a suonare il violoncello!"
"Dio te ne guardi, figlio mio, si sa dove si comincia e non si sa dove si finisce: potresti diventare un critico musicale".

La battuta è pubblicata sul foglio umoristico genovese "Il Sacripante di Circassia" (aprile 1893). Una garbata presa in giro della figura del critico, molto spesso considerato un "musicista fallito", costretto a ripiegare sulle parole dopo essersi arreso alle note. In realtà, lo si sa bene, la storia della critica non è stata scritta da "falliti", ma da musicisti (anche letterati illuminati) che hanno saputo andare oltre i meri aspetti tecnici di una esecuzione, per segnalare talenti, scoprire la bellezza di certe opere, porre problemi di estetica. Un tempo la critica impegnava nomi come Berlioz, Schumann, Hanslick, Wagner. Nell'Ottocento un debutto importante occupava le prime pagine dei giornali. Nel gennaio 1901 la malattia e la morte di Verdi trovò per giorni spazio sulla prima pagina di tutti i quotidiani (con rimandi alla seconda e alla terza pagina), in coabitazione con la contemporanea malattia e morte della Regina Vittoria.

Oggi la critica musicale gode di un'attenzione assai minore da parte dei media, risultato, anche, di una minor considerazione in cui è tenuta la musica "seria" in rapporto ad altre forme di arte o di divertimento. Le pagine di spettacolo privilegiano la televisione, poi la musica leggera, il cinema e, in ultima battuta la prosa e la musica. A meno che non ci sia qualche scandalo. I fischi alla Scala fanno sempre notizia, ma l'incaricato a parlarne in più colonne è il cronista, mentre al critico viene lasciato un colonnino per uno stringato commento.

[...] A mio parere, la critica non ha perso nessuno dei suoi valori e delle sue funzioni. A maggior ragione in una società che tende a perdere sempre più il senso della critica e a digerire qualsiasi cosa senza alcun processo valutativo, con una tendenza ad appiattire tutto verso il basso. Limitandoci agli aspetti musicali, l'esercizio della critica è, in realtà, estremamente utile per chi lo fa, in quanto induce a riflettere e a ragionare su quel che sente; e dovrebbe essere utile anche per chi legge la critica, non perché l'articolo sia un pezzo di Vangelo dai giudizi infallibili, ma perché, se scritto con onestà intellettuale, puòcomunque aiutare a dibattere e a ragionare sui problemi
della cultura.

In questo senso per un giovane musicista appropriarsi degli arnesi del mestiere del critico è estremamente interessante e stimolante. Ha sostenuto Paul Griffiths che il critico è un esecutore che percorre un itinerario opposto: ovvero mentre l'esecutore tradizionale converte in suoni materiali non acustici (i segni della partitura), il critico traduce in parole l'esperienza dell'ascolto. Accettando questa impostazione, la responsabilità di un critico è notevole e l'esercizio di questa professione deve essere sostenuto da una preparazione completa: conoscenze musicali tecniche approfondite, capacità di scrittura (chiara, leggibile, piacevole), onestà intellettuale e forte personalità.

Roberto Iovino



Liberamente tratto da Il Cantiere Musicale
Rivista del Conservatorio Paganini di Genova,

Anno II, N. 4, inverno 2007

giovedì 10 luglio 2008

Una costante autopersecuzione

Theodor W. Adorno, I miei sogni, (ed. orig. 2005), trad. italiana di Alessandro Cecchi e Michele Ranchetti, pp. 133, € 10, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

“Fra i modi di dire mi è venuto in sogno e ho sognato ci sono di mezzo le ere storiche. Ma quale dei due è più vicino alla verità? Come non sono gli spiriti a mandare il sogno, così, d’altra parte, non si può dire nemmeno che sia l’io a sognare.”
(Minima moralia, Einaudi 20054, p. 227).

Una lapidaria sentenza apre l’incompiuto Beethoven (Einaudi 2001): “Nella musica siamo come nel sogno […] veniamo strappati dalla corrente della musica per andare Dio sa dove... forse è qui l’affinità della musica con la morte”. Diversi i punti di congiunzione fra mondo onirico, musica e morte nella speculazione di Adorno: i sogni sono come un fiume sotterraneo che, a tratti, riemerge. L’uomo-Adorno nei sogni si destreggia tra impegni mondani e peripezie erotiche, è spesso torturato o, a sua volta, torturatore: i sogni felici - sostiene il filosofo - si danno così poco come, secondo il detto di Schubert, la musica allegra. Il filo rosso è una costante autopersecuzione in cui Adorno sogna di essere crocifisso, mangiato, ghigliottinato. La vita diurna e quella notturna sono vasi comunicanti, molto più di quanto non appaia ad una superficiale occhiata, e forte è la tentazione di usare le chiavi interpretative che egli stesso fornisce.
Nel 1966 scrive nella Dialettica negativa: “Non è […] sbagliata la domanda meno culturale se dopo Auschwitz ci si possa lasciare vivere, se ciò in fondo sia lecito a chi è scampato per caso e di norma avrebbe dovuto essere ucciso. Per sopravvivere egli ha già bisogno della freddezza, il principio basilare della società borghese, senza cui Auschwitz non sarebbe stato possibile: questa è la colpa drastica di chi è stato risparmiato. Per espiazione lo visitano sogni come quello di non vivere più, ma di essere stato ucciso nelle camere a gas nel 1944 e di vivere da allora l'intera esistenza solo nell'immaginario, emanazione del folle desiderio di un assassino vent'anni or sono», (trad. di M. Ranchetti). Nel novembre 1942 Adorno aveva sognato di riuscire a scappare dalla metropolitana, e annotava nel Traumprotokoll: “Non potevo […] rallegrarmi del colpo di fortuna. Avevo la sensazione che avessimo fatto qualcosa di proibito, perché ci eravamo messi in salvo attraverso l’uscita sbagliata […] e per tutta la durata del sogno mi aspettavo la punizione che per questo doveva colpirci”.
Questi racconti del cuscino non sono dunque soltanto un divertissement: l’intellettuale, che ha voluto che fossero pubblicati dopo la sua morte, li considerava a pieno titolo una sua opera, tanto che alcune intuizioni nate nel sonno confluiscono direttamente nei Minima Moralia, che per la forma rapsodica sembrano il contraltare dei Sogni. Il fine resta comunque la loro mera registrazione, senza interpretazione. Il teorico di Francoforte non è mai stato in analisi, ma conosceva Freud, anche se la sua posizione è critica, perché - com’egli stesso scriveva - nella psicanalisi non c’è nient’altro di vero che le sue esagerazioni.
Il libro è anche una teoria di persone, conosciute (Gretel, la moglie, Max Horkheimer, Alban Berg, Karl Kraus) o anonime, che si muovono in un teatro d’ombre. Leggerlo è come dare una sbirciata dietro le quinte di un palcoscenico, gesto che non garantisce una migliore, ma certamente una diversa comprensione dello spettacolo. C’è una circolarità, un perenne ritorno, in forme nuove, di immagini e situazioni già viste: la fantasmagoria si snoda come le figure replicanti di Escher o, più spesso, come i minuscoli cammei crudeli di Bosch.

Benedetta Saglietti
L’Indice dei libri del mese, Giugno 2008

Vedi anche:

martedì 8 luglio 2008

Musicofilia, Sacks

"Sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa, sentire una specie d'orchestra suonare, suonare" Con quel che segue. Se fossi un paziente o un amico del dottor Oliver Sacks, mi piacerebbe raccontargli che da quando ho letto la sua ultima fatica "Musicofilia" non riesco più a cancellare dalla mente un ritornello, tratto da uno show televisivo della giovinezza. Minuscola dimostrazione del riflesso condizionato di cui si trova ampia traccia nelle pagine del saggio.

Sacks, celebre neurologo, giunge a quest'opera dopo aver dedicato altri lavori all'interazione tra musica e funzioni cerebrali. In particolare con Risvegli, che risale al 1966, descrive gli effetti esercitati su pazienti gravemente parkinsoniani. "Da allora-confessa - più di quanto potessi immaginare la musica si è imposta di continuo alla mia attenzione, mostrandomi i suoi effetti su quasi ogni aspetto della vita".

Giuseppe Ceretti continua su... Il Sole24ore

lunedì 7 luglio 2008

Ascolto da Nobel

Cosa ascolta un premio Nobel di letteratura quando scrive? Ecco il caso di Gabriel Garcia Marquez (tratto da Vivir para contarla, Mondadori, Barcelona, 2002, p. 493).

“Al giorno d’oggi ho ascoltato tanta musica quanta sono riuscito a procurarmene, soprattutto quella romantica da camera che considero l’apice delle arti. In Messico, mentre scrivevo Cent’anni di solitudine –tra il 1965 e il 1966-, avevo solo due dischi che si usurarono per averli ascoltati troppo: i Preludi di Debussy e Hard day’s night dei Beatles. Più tardi, quando finalmente a Barcellona ne ebbi quasi tanti quanti ne avevo sempre voluti, la classificazione alfabetica mi sembrò troppo banale, e optai per mia comodità l’ordine per strumenti: il violoncello, che è il mio favorito, da Vivaldi a Brahms; il violino, da Corelli a Schoenberg; il clavicembalo e il pianoforte, da Bach a Bartòk. Fino a scoprire il miracolo del fatto che tutto ciò che suona è musica, inclusi i piatti e le posate nel lavandino, purché compiano l’illusione di indicarci dove sta andando la vita.

Il mio limite era che non riuscivo a scrivere con la musica poiché facevo più attenzione a quello che ascoltavo che a quello che scrivevo, e ancora oggi assisto a pochissimo concerti, perché sento che sulla poltrona si stabilisce un’intimità un po’ impudica con i vicini estranei. Tuttavia, con il tempo e la possibilità di avere buona musica in casa, imparai a scrivere con un sottofondo musicale concorde con ciò che scrivo. I notturni di Chopin per gli episodi rilassati, o i sestetti di Brahms per i pomeriggi felici. Invece per anni non ascoltai più Mozart, dal momento che mi assalì la perversa idea che Mozart non esistesse, perché quando è bravo è Beethoven e quando è cattivo è Haydn.”
L. P.

venerdì 4 luglio 2008

Maria di Nazareth Superstar

I rapporti tra Chiesa e teatro musicale in molte occasioni sono stati tormentati: censure, interdizioni e minacce hanno colpito diversi compositori. Ciò non significa che i musicisti abbiano rinunciato a mettere in scena episodi tratti dai testi sacri o dalla vita dei santi. Samson et Dalila di Camille Saint-Saëns, Salomé di Richard Strauss, Le martyre de St. Sébastien di Claude Debussy sono solo alcuni esempi.

In questi giorni, teatro musicale e Chiesa hanno trovato piena concordia. Martedì 24 giugno, nell’Aula Paolo VI in Vaticano, ha avuto luogo la prima mondiale del musical Maria di Nazareth... una storia che continua. Il lavoro, che conta con il patrocinio della Santa Sede, è stato scritto da Maria Pia Liotta (l'ideatrice) e da Adele Dorothy Ciampa per le musiche di Stelvio Cipriani. Non è la prima volta che un musical ha l’approvazione del Vaticano: già Jesus Christ Superstar di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber (1970) e Godspell di Stephen Schwartz e John-Michael Tebelak (1971) furono ben accolti.
L’accettazione di tali lavori è in parte determinata dalla loro capacità di divulgare la fede cattolica a un largo pubblico (anche se non sempre questo è stato il proposito degli autori). Questa stessa funzione era svolta dalle opere e zarzuelas composte nel secolo XVIII dai missionari in America. Le composizioni dovevano servire a introdurre gli indigeni ai misteri della religione, per questo motivo venivano composte nelle lingue locali e interpretate dagli stessi indigeni. Per rendere il contenuto più vicino al pubblico, sia l’argomento sia lo scenario includevano elementi del mondo indigeno: archi di fiori e piante selvatiche, frutti tropicali e animali riempivano la scena. Oltre a svolgere un compito evangelizzatore, le composizioni erano anche un mezzo per promuovere l’operato dei missionari. Quando un’autorità si recava in visita presso le reducciones, le opere venivano cantate in spagnolo o in italiano: il fatto che un indigeno riuscisse a commuovere pur cantando in una lingua a lui ignota, dimostrava che anche lui aveva un’anima.
Anche oggi la Chiesa cerca di diffondere il suo messaggio con un linguaggio che spera vicino ai destinatari, servendosi della figura di Maria come ai tempi dell’Inca Garcilaso: “(...) un frate della Compagnia di Gesù compose una commedia in lode della nostra signora la Vergine Maria e la scrisse in lingua Aymarà” (Comentarios Reales). Quali risultati (artistici e spirituali) otterrà?
L. P.

giovedì 3 luglio 2008

La sinestesia nella poetica di Skrjabin

Aleksandr Skrjabin (6 gennaio 1872 - 27 aprile 1915) ha sollevato, nel corso di appena un secolo, innumerevoli dibattiti e giudizi contrapposti che tuttora affascinano. L'influenza della poetica skrjabiniana comincia con Aleksandr ancora giovane (ci si riferisce all'ultimo decennio del XIX secolo) e prosegue dopo la sua morte, fino ad arrivare, nonostante qualche periodo di silenzio, ad oggi. A dimostrazione dell'attuale interesse per l'opera di Skrjabin esistono infatti, non solo studi relativi alla vita, alle opere e alla poetica, ma associazioni dedicate al compositore russo nate con lo scopo di portare alla luce, di analizzare, e finanche di proseguire i molteplici aspetti dell'opera del maestro. Ne sono un esempio la Skrjabin Society of America di New York, e la Bogliasco per Skrjabin di Bogliasco, sulla riviera ligure (dove soggiornò Skrjabin con la seconda moglie Tatiana, dal giugno 1905 al febbraio 1906).

L'opera di Skrjabin non si esaurisce nella sola produzione musicale, ma comprende anche un gruppo di scritti pieni di riferimenti alla filosofia, all'esoterismo e alla teosofia, che documentano una concezione del mondo personalissima, anche se con ampi richiami a Nietzsche e Schopenhauer. Dall'insieme di questi scritti emerge una poetica musicale di tipo mistico-religioso la quale si pone un ideale da raggiungere[i], che culmina con l'idea di arte liturgica, finalizzata al raggiungimento della Verità, dell'Essere.

Risulta dunque importante seguire parallelamente l'evoluzione del suo pensiero e della sua opera musicale, perché i due aspetti si influenzano vicendevolmente, tanto che la sua filosofia matura grazie ai perfezionamenti tecnico-formali della pratica. L'indagine parallela di questi due aspetti ha messo in evidenza la centralità, nel pensiero skrjabiniano, del fenomeno sinestesico, ossia quel fenomeno psicologico per il quale alcune percezioni derivanti da una modalità sensoriale si assiociano costantemente a immagini mentali legate ad un'altra modalità sensoriale. Va peraltro osservato che questo tema, pur importantissimo in Skrjabin, è stato assai presente nella cultura scientifica ed artistica del tardo Ottocento e del primo Novecento, interessando anche altri musicisti (per esempio Schönberg), pittori (per esempio Kandinskij), medici, psicologi, filosofi.

Il resto dell'articolo è leggibile on line su Parol
da cui questo estratto è stato tratto liberamente

Cristina Ceroni


La rivista "Parol", Quaderni d'arte e d'epistemologia, è stata fondata nel 1985 da Luciano Nanni, docente del dipartimento di Filosofia dell’Università degli studi di Bologna, e da allora è uscita con periodicità annuale. Il suo approdo in rete ha chiuso un'epoca.

Il termine "Parol" rinvia a Ferdinand De Saussure e alla sua celebre opposizione langue vs parole, dove langue indica il "codice" e parole il "discorso". "Parol" rimanda precisamente alla trascrizione in alfabeto fonetico del termine francese parole, onde evitare equivoci indesiderabili con il termine italiano "parole".

martedì 1 luglio 2008

Stravinskij - Craft, Ricordi e commenti

Igor Stravinskij - Robert Craft, Ricordi e commenti, traduzione italiana a cura di Franco Salvatorelli, Adelphi, 414 pp., € 36,00
Il nuovo Ricordi e commenti (Adelphi) composto da Robert Craft, direttore d’orchestra, suo interprete e assistente, si pone ad integrazione dei volumi simili, ma non identici, usciti in passato (Colloqui con Strawinsky, Einaudi, Cronache della mia vita, SE). Egli ha vissuto per 23 anni con il compositore raccogliendo il materiale che compendia le sue quattro vite: russa, svizzera, francese e statunitense. Non è chiaro dove inizi Stravinskij e dove finisca Craft, ma l’osmosi è comunque riuscitissima. Nonostante la mole che può intimorire, il libro si legge d’un fiato: perché Stravinskij è un incantatore di serpenti, evocatore di storie come i vecchi di fronte al fuoco. Nel primo capitolo, il più affascinante, imbastisce il racconto dell’infanzia russa, non priva di echi proustiani, dominata dalla figura favolosa di Ciajkovskij. L’uomo Stravinskij, lontanissimo dallo stereotipo, a tratti commuove; il suo però è anche un travestimento: mefistofelico, camaleontico. Lo scopriamo fine conoscitore d’arte, lettore di Musil e Vaughan, uomo mondano e allo stesso tempo schivo. Una teoria di situazioni e personaggi, a volte solo fugaci comparse, vengono tratteggiati con incisività: Rimskij-Korsakov, Picasso e Balla, Skriabin e Prokofiev, Rachmaninov, Strauss, Reger e Debussy, e ancora Fokin, Djagilev, Nijinskij, Auden e Cocteau, D’Annunzio, Proust, Gide e T. S. Eliot. Gustosi “dietro le quinte”: <musique concrète erano i telefoni di Pietroburgo, mi ispirarono le battute iniziali del secondo atto del Rossignol>>. Un’opera polisensoriale, viva e pulsante, che pullula di suoni, colori e odori.

Benedetta Saglietti
Recensione apparsa sul Giornale della Musica, 249, Giugno 2008
 
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